Un resoconto dark di questa escursione, by "Edgar Allan" Orsi

Una visione gotica del nostro fiume e delle oasi faunistiche della nostra regione... in fondo è stato solo in giorno di pioggia!

Sabato 17 Aprile 2010. Pomeriggio.

Arrivi sull’argine del Reno presso il ponte Bastia camminando sull’erba fradicia. Piove da parecchie ore, ad intermittenza adesso, e il cielo non promette schiarite. In piedi sull’argine osservi l’acqua melmosa disegnare pigri mulinelli fra ripide rive di fango ed ortiche. Tutt’intorno giace la bassa, rassegnata alla sua desolazione nella livida luce di pioggia. Ti domandi quali colpe devi espiare per trovarti qui.

Ti accucci dentro una canoa e aspetti con i(le) compagni(e) il ritorno degli autisti che stanno portando i mezzi al punto d’arrivo. Ogni tanto guardi il cielo, in testa ti ronzano i versi di Jacques Brel : “Un cielo così grigio, così basso che bisogna perdonargli”. Bassaioli annoiati usciti dal bar stanno aggrumati sul ponte aspettando il gran varietà del nostro imbarco, un diversivo che eluda l’uggia del giorno di festa. Torneranno delusi al tedio usato, perchè i nostri compagni tardano e l’attesa è ancor più noiosa che le chiacchiere del bar.

Per tutto il mattino la pioggia non ha dato tregua, ma la cordialità del comitato di accoglienza ci ha tenuto alto l’umore. Panini e vino ci sono stati offerti nel ben allestito museo di Argenta, dopo di che la signora Monica, dal sorriso radioso e la figura slanciata dalla base di stivaletti neri, ci ha affidati ad una guida locale, il barcaiolo che ci condurrà nella valle di Campotto. Entriamo scivolando in uno stagno d’acqua scura sotto un cielo che vieppiù incupisce fra fumi di nebbia dai canneti. Ritto su un barchino che pare fatichi a contenerne la poderosa figura, avvolto in un poncho grigioverde, il barcaiolo osserva impassibile, una lunga pertica in mano, il nostro convulso diguazzare. Gli occhi sono fessure nere sotto il cappellaccio floscio.

Evoca Caronte, il dantesco traghettatore dei morti. Ci guida lungo un lugubre canale che potrebbe essere l’ingresso dell’Ade. In quale girone ci vorrà condurre? Forse in quello dei golosi, a giudicare dalle nostre usanze alimentari. Poi il canale sfocia in una ampia valle dove si stempera l’atmosfera dantesca. Ma l’uggia del giorno seguita ad alitare sulla palude. Nessun grido di uccelli o volo di aironi, rare anitre stanno acquattate fra le canne. Le oche sembrano morte. Siamo rientrati dopo un breve giro. Ma ora è pomeriggio avanzato e noi aspettiamo sull’argine. Quando i nostri arrivano è già assai tardi, ma si sa, siamo in tanti e le operazioni diventano macchinose.

L’imbarco è rapido, grazie agli scalini che i nostri valorosi pionieri hanno scavato giorni prima sulla scoscesa fanghiglia della riva. Eccoci tutti in acqua finalmente, l’anima si può distendere e rallegrare. Tanto più che la pioggia ha concesso una tregua ed un filo di corrente aiuta. Lazzi e frizzi rimbalzano da una barca e l’altra. Il percorso e’ lungo – 22 km – e non particolarmente attraente. Passata la confuenza con il Sillaro si esaurisce la corrente e bisogna dar di pagaia. Intanto la luce incomincia a scemare; nel freddo della sera incipiente braccia e mani intirizziscono e il roteare delle pagaie diventa faticoso. Non parla nessuno.

Passiamo sotto un ponte. Da qui alla meta sono 4 Km., si dice, ma passa un’ ora e siamo ancora lì a mulinare con braccia sempre più pesanti. Che ci sia un errore nelle unità di misura e si tratti di miglia? Marine o terrestri? Domande, domande che si innestano su quella esistenziale :” Ma io, che cosa devo espiare?”

Infine appare l’approdo, quando è già buio, poco oltre il traghetto di S. Alberto. In fretta ci vestiamo e dirigiamo ad Anita, dove il comitato di accoglienza ci ha pazientemente atteso per la cena. Una buona cena, che ci viene offerta insieme ad un intrattenimento musicale - voce, chitarra e violino - per un revival degli anni 70. Si ride, scherza e balla, prima di abbandonarci al meritato sonno, chi in camper, chi nel recentemente ritrutturato ostello di Anita.

Anita è una località singolare. Ha una grande piazza quadrata, sproporzionata alla pochezza dell’abitato. Municipio, ostello e chiesa ne occupano 3 lati, edifici di notevoli dimensioni, di stile inconfondibilmente fascista. Linee rette, grandi finestre, interni sobri dai soffitti altissimi. Una piazza progettata a gloria del regime, incongrua al paese, tanto che appena oltre cominciano i campi. Che però non dà senso di oppressione, ma piuttosto di una sobria geometria. Insomma, una piazza vagamente surreale.

Al mattino, finalmente sotto un cielo azzurro, pur con braccia indolenzite pagaiamo allegramente nelle valli di Comacchio, tenendoci come da raccomandazione lontani dalle rive per non disturbare gli uccelli che vi nidificano. La colonia dei fenicotteri è numerosa; da lontano ti sembrano bianchi, cogli solo una tenue sfumatura rosa. Ma quando si alzano in volo offrono alla vista la magnificenza delle grandi ali che splendono di un rosa intenso, quasi rosso. E con questa visione negli occhi lasciamo le valli di Comacchio.

Godiamo ancora della gentilezza delle signore del centro di accoglienza, che ci servono un pranzo di congedo. Auguriamo loro successo nel promuovere il loro territorio, che l’immaginario collettivo associa a nebbia e zanzare, ma ha indubbi pregi, non solo naturalistici. Ritorneremo l’anno venturo, e intanto portiamo con noi la buona sensazione della ospitalità ricevuta. Un grazie ai nostri organizzatori “A fior d’acqua” per l’impegno, sicuramente gravoso, che si sono accollati.

 

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